In tutte le città che ho fotografato ultimamente ho notato una tendenza che le accomuna.
Innanzitutto ciò che le accomuna è la presenza di interi quartieri residenziali che gravitano attorno a centri commerciali quasi identici formando una città senza confini: un amorfo tessuto abitativo inframezzato da centri nodali preposti al consumo, che sorge in aree suburbane circondate da arterie autostradali. Questi shopping center, tutti caratterizzati da dimensioni enormi e da uno stile architettonico che sparisce rispetto al prevalere del segnale pubblicitario che lo colora, lo addobba e lo riveste, potrebbero fungere da nuovi punti di incontro e di aggregazione, come tante AGORÀ spostate dal centro alle molteplici periferie se non fosse che al loro interno non si è considerati cittadini ma semplici consumatori di beni o di divertimenti.
Anche le nuove strutture architettoniche sono mutate sia nel tessuto residenziale che nei nuovi centri direzionali, assumendo la stessa fisionomia.I pesanti, grevi e compatti complessi residenziali di queste città orizzontali, si snodano in successioni spaziali spesso claustrofobiche, inframezzati da piazze deserte che fungono solo da luogo di transito, non più incrocio e incontro tra differenti attività e persone.
Inoltre l’uniformità e la modularità delle loro facciate non consentono dall’esterno di individuare visivamente le varie unità abitative che li compongono, con il rischio di identificare ogni finestra con una cella che ci rimanda a un’idea di prigione monocellulare o a un bunker impenetrabile e chiuso.
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Negli edifici pubblici prevalgono invece elementi leggeri e specchianti come il vetro in grado di giocare con le trasparenze: strutture dalle linee agili che sfidano altezze e volumi altrimenti pesanti e incombenti e che riflettono nei loro perimetri le architetture che gli stanno di fronte, prendendo questi edifici i colori dal cielo, dal sole e dalle nuvole.
Ma anche questi eleganti edifici di cristallo, che rimandano l’immagine riflessa a chi li guarda e che sembrano gusci trasparenti appaiono, ancora una volta, come involucri privi di vita autonoma; la totale assenza dei muri intercalati dalle finestre che un tempo fungevano da tramite tra il dentro e il fuori li fanno percepire come tante astronavi misteriose la cui bellezza protegge il loro interno da ogni indagine esterna.
Tracce di presenze umane che non hanno ancora smarrito la voglia di marcare questi non luoghi con il proprio segno le ho incontrate prevalentemente sui muri dove graffiti, murales o semplici scritte anonime fungono da vere e proprie icone, in grado di caratterizzare posti altrimenti identici.
Sovrapponendosi o condividendo gli stessi spazi delle scritte e delle insegne istituzionali, li marcano e li delimitano, conferendogli la dignità di luogo segnato, vissuto, pensato, e quindi urbanizzato.
Ed è proprio la frammentazione spaziale, la morte della POLIS, ciò che mi ha colpito mentre mi perdevo in queste città; fattore che sta già modificando il nostro modo di essere, di vivere e di relazionarci, dato che la frammentazione degli spazi pubblici e privati non può che riproporsi anche nei rapporti sociali. Mi è parso quindi fuori luogo raccontare fotograficamente il paesaggio urbano attuale come un continuum riconducibile ad un’unitaria idea di città che non esiste più, mentre ho preferito ricostruire luoghi e spazi che lo descrivono allineando i mille frammenti in cui è composto nei miei scatti.